Alfredo Pirri è un importante artista italiano che vive e lavora a Roma. È intervenuto il 29 e il 30 novembre 2013 al Continental breakfast - Running time in Trieste, una sessione speciale del sesto forum Ince di Venezia per curatori d'arte contemporanea organizzato da Triestecontemporanea presso lo Studio Tommaseo, presenziando alla prima proiezione in Italia del film documentario Lo specchio degli inganni del quale è protagonista. Incontrandoci in quell'occasione ci siamo confrontati su alcuni argomenti.
Tenuta dello Scompiglio Ph. Andrea Martiradonna |
Alfredo. Anche al Museo di Reggio Calabria è così,
nel senso che io naturalmente mi sono formato all’interno della
cultura dell’astratto inteso come fonte di energia, non come forma, non
come immagine, ma come forma di energia che debba per forza inserire un disagio nell’immagine. Sono convinto anche che l’astrattismo, il
così detto astrattismo in pittura, sia una storia del tutto particolare che oggi noi possiamo tornare a riguardare solo se
innerviamo di quella energia anche le nostre conoscenze figurative.
Io. Ma tu parli dell’arte astratta
di quasi un secolo fa.
Alfredo. Sì, esatto, quella che è continuata però a
esistere fino ai giorni nostri. A volte, se guardiamo delle opere o creiamo
delle opere che sono astratte lo sono solo all’apparenza perché sono opere non propriamente astratte, cioè sono
opere come quella di Reggio Calabria che vivono in una dimensione dinamica e addirittura mimetica con l’architettura stessa,
cioè con i luoghi dell’abitare umano
anche se a una scala monumentale. Quindi il lavoro di Reggio Calabria per
esempio è un lavoro che si integra perfettamente nell’architettura,
nasce come riflessione sull’architettura quindi
è solo il linguaggio che è astratto.
Io. La riflessione sull’opera a
Reggio Calabria mi riporta alla mente Niepce, cioè lo
scopritore della fotografia con la foto fatta sul bitume che non è molto chiara perché la luce solare ci ha messo ore per imprimere i
chiaroscuri e in più in questo momento vedo che ci sono tante operazioni
artistiche che rimandano ad un disegnare con la luce.
Io. Qui subentra anche il discorso del privato, dell’individuale dell’artista rispetto
al pubblico.
Io. Quindi ti faccio una domanda provocatoria: l’opera d’arte, mentre tu
la crei e la vedi solo tu, ha un limite senza un pubblico? Se l’opera non viene vista da nessuno rimane solo un discorso
tra te e l’opera, tra soggetto autore e oggetto?
Alfredo. Sai cosa faccio tutti i giorni e non solo per
quanto riguarda le mie opere ma tutto? E in
particolare per il mio lavoro? Smetto
di lavorare solo quando sono certo che se morissi all’improvviso quel lavoro si potrebbe considerare finito. Perché penso sempre a quello che dici e siccome io stesso
mi ritengo spettatore dei miei lavori mentre li faccio, penso, che se morissi all’improvviso quella cosa comunque dovrebbe essere completa.
Io. Questo è un discorso molto interessante anche
per il mondo delle performance dove l’arte è il
gesto dell’artista. Secondo la mia teoria non solo chi fa la performance
viene osservato ma anche chi fa la performance osserva il pubblico che fa una
performance a sua volta.
Alfredo. Sì, soprattutto perché normalmente
chi fa una performance si muove in perfetta sintonia con il pubblico, quindi
guai se non l’osserva. Io non faccio performance ma sono convinto che il mio
lavoro abbia un aspetto performativo nel senso che, l’opera rapportandosi a una dimensione spaziale luminosa,
seppure sia immobile, si modifica momento per momento.
Io. È la luce che varia ed è tutto assolutamente
casuale.
Alfredo. Sì, assolutamente casuale. Ma tutto il mio
lavoro è un gioco continuo col caso.
(P.I.)